Solo i poeti

Ciò che intendo e vedo, oh miei coetanei,
è che non c’è verso, invero, di farci apparire
più che cinici speronatori d’assalto: l’afflato
duplice, che incarna il vuoto, l’alito saturo
di alcolemiche essenze: eppure è sopito
il sentimento d’un coccodrillo, sedato
il suo amore per i figli dei figli, divorati
– ogni tanto, poi, piange – e noi con lui.
La natura si sveglia: come si fa a godere
con la consapevolezza della morte?
Ci si stringe forte. Ci si agguanta
al cancello. Si supera tutto.
Si allenta il freno. Così, rifioriti,
stirarsi come petali – gli steli
rigonfi di liquore e la corolla
densa d’un cuore gramo;
io ti spogliavo, tu mi dicevi:
“Solo i poeti, solo i poeti sono”.

Immagine di Chema Madoz

Dell’animale chiamato ‘uomo’

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Divina scepsi,
immutata e innaturale arida cupidigia
d’incontrastato/egoistico
Amore immacolato sibillino nell’incanto
dell’abbandono carnale
Ai ricordi dell’Araba fenice
risorta dalle ceneri sillogistiche.
“Non temi tu la morte?”, è fatta di lustri
e 27 vergini pronte all’uso…
ebbene, io temo più la noia
d’un paradiso chiuso, sordo alla
mutevole meraviglia metereologica
dei sensi: estasi d’istanti e crudi dissapori
che, talvolta, la pena infligge
ma che mai ha estirpato di pregio gli ori,
di gentilezza gli odori – eppure, il piacere
nel nostro cervello
è associato da sempre alla consuetudine:
il riconoscere un siffatto metallo,
il dato sapore, che altrimenti riconduciamo
al minerale grezzo, all’olezzo insopportabile
– il tartufo, ricordiamo, è rinomato
benché sappia di piedi – ciò significa
che possiamo crepare, a patto di sapere
di che puzza morire.
Neanche la più
raffinata delle menti, e ce ne sono molte
sedute a questo tavolo, sarà mai capace
di cogliere la brutale, semplicistica,
conoscenza degli elementi;
ciò implicherebbe, senz’altro,
un accostamento al regno animale, dal
quale noi ci vogliamo distanziare
e il qual paragone ci parrebbe greve.
Solo la curiosità propria dei savi e dei
Folli, può spingere l’uomo, instancabile
esploratore del mondo, oltre sentieri
a lui conosciuti, senza far nascere in lui
il desiderio di dominarli – o, qualora
non vi riuscisse – raderli al suolo.
Ma l’animale che io sono
mi spinge a diffidare d’istinto
di ciò che non conosco, poiché temendolo
me ne tengo a distanza, e distanziandomene
ne preservo l’esistenza – continuando
ad ignorarlo.

Majakovskij nel bagno

Caro mio amico e fratello,
compagno di notti insonni
sudate sull’eremo di Tizzano,
una durissima sciarada ci attende
tra le piaghe della fame
e la mancanza d’appetiti.

La mia paura d’arrivare in cima
è tale – nell’amara consapevolezza
di non poter varcar la soglia –
che, solo, mi aggiro tra ciò che sono
e ciò che gl’alteri aspetterebbero.

Nessuno è pronto adesso
a rimembrare il suono dello sparo,
ma tutti vorrebbero essere al mio posto
mentre, solo, mi accingo a spingere
la porta che divide il bagno dal soggiorno
– lasciando il peso delle mie fatiche
a raggelarsi sul mio letto –
e il cadavere di Vladimir
lì disteso, sul pavimento:
batte ancora il suo gran cuore
nello scarico che, lento,
vorrebbe ingoiare i segni
di un dolore così grande.

Nessuno è pronto adesso
a rimembrar le urla salire per le scale,
ma tutti vorrebbero essere al mio posto,
da cotante tubature sgorganti sangue,
per colare, coscienziosi, sulle membra.

Vane le nostre esistenze di fronte a tale perdita
(e questo è forse il punto: altre vite abbiamo avuto,
senza rendercene conto), presenze nell’assenza
di un’impropria occupazione.

Il fatto è, mio vecchio,
che ci accingiamo ad usurpare il posto di chi, invero,
fu disposto anche a morire per la sua Rivoluzione:
benché ci dia diletto pensare d’esser come loro,
sopravvivremo, nostro malgrado, a questo mondo
ché di esso siamo figli e ad esso infami torneremo.

Ma la follia è da pagar cara – come la solitudine,
del resto – generata (e non genetica)
dal troppo lauto prezzo.

Perciò brindo:
a ciò che siamo stati, a ciò che non saremo.

 

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È strano che tu muoia

A Federico, Stefano, e tutti gli altri.

È strano che tu muoia
di nuovo, ogni volta
che una sirena passa
oltre la grata,
facendo udire
il suo lamento tetro.

È strano che tu muoia
di nuovo, da capo,
dopo esser stato
amico e compagno,
dopo aver avuto luogo
nella tua storia: la vita.

È strano che tu muoia.
Guardo una tua foto
sbiadita dal sole,
che rende visibile
la polvere
sulla tua vicenda:

chiaro è il tuo sorriso,
così diverso da quello
di quanti hanno deciso
che tu dovessi soccombere
– picchiato, calpestato –
per un pensiero, un colore.

È strano che tu muoia:
tu sei morto e non risorgi
come il dio degli assassini,
sicuri della loro impostura:
nella loro impunità,
la loro damnatio memoriae.

È strano che tu muoia:
tu sei morto e resti morto
in ogni buia fogna,
in ogni cieca fossa,
in ogni vile plauso,
in ogni divisa promossa.

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